Recensioni



I demoni di villa Opcina

da “Il Piccolo” di mercoledì 13 giugno 2012
di
Igor Buric


"Non ci fu più alcun domani" per gran parte dei protagonisti del thriller  
"I demoni di villa Opcina" (Ibiskos Risolo-2012) di Daria Camillucci. 
La morte del banchiere Gregory Von Riben fa da preludio a una catena di omicidi che intrecciano le vite dell'ispettore Nicola Del Ben e Angelica, figlia adottiva di Von Riben, nonché sua amante in un gioco erotico perverso e morboso. Sullo sfondo c'è una Trieste in cui il crimine organizzato e il mercato della pedofilia la fanno da padroni. Del traffico umano di innocenti, i piccoli Sonia e Drago, sono vittime in cerca di vendetta e libertà. 
A colpire con mano pesante non è solo la vicina e feroce malavita slava, ma entra in gioco Cosa Nostra, fredda e spietata. L’autrice triestina Daria Camillucci ha pubblicato le raccolte poetiche in dialetto “Ortighe... e un fior” (1979) e “Rampigada dentro” (ed. Istituto giuliano di storia e cultura-2002), nonché un romanzo dal titolo “Il confine di Tito” (Ibiskos Risolo). 
Lo scorso anno “I demoni di villa Opcina” si è segnalato finalista nel Premio Ibiskos. Daria Camillucci appartiene alla mescolanza etnica propria dei triestini che sono, scrive l'autrice, «più italiani degli italiani, non per razza, ma per scelta del cuore e della mente». 
Si snodano, facendo da contorno alla trama fedeli excursus storici che ricalcano la Trieste che fu e il suo passato di scrittori e poeti. Colpisce la riflessione che l’autrice fa trasparire nei pensieri di un protagonista a proposito del sentiero Rilke e della scelta, comune a tanti suicidi, di trovare la fine “in un luogo che dovrebbe far pensare alla vita e non alla morte”. La lettura, fluida e spigliata, è insaporita da continua suspance che nulla toglie all'agilità del libro, che è uno spartito vivace, la cui sola nota fuori battuta è l'editing. Ne avrebbe meritato uno migliore.



Il confine di Tito

da “Il Piccolo” di giovedì 29 novembre 2007
di
Pietro Spirito

E’ una storia d’amore sul confine l’esordio nella narrativa di Daria Camillucci, pubblicista e poetessa dialettale. Sin dal titolo “ Il confine di Tito” (Ibiskos editrice, pgg.122, 15 euro), il libro, che sarà presentato oggi, alle 18, alla libreria Minerva di via san Nicolò 20 da Claudio Grisancich  e Paolo Quazzolo, appare chiaro l’intento dell’autrice: racconto di sentimenti inserito in una cornice storica e sociologica che fotografa Trieste in un momento cruciale della sua storia, il periodo di transizione che va dai prodromi della crisi jugoslava alla morte di Tito. E’ in questa città al bivio che Agata, donna passionale con una visione nazionalista della sua terra, incontra Zoran, uomo d’affari jugoslavo che vive due vite, “una all’Est e l’altra all’Ovest”, si occupa di pianificazione e importazione e ha a Trieste uno dei suoi uffici operativi.
Tra Agata e Zoran, che è sposato, scocca la scintilla della passione e inizia un rapporto clandestino fatto di focosi incontri, baruffe per la diversa visione della politica e della società, altrettanto focose pacificazioni. Fra i due amanti è amore vero, travolgente, e la vicenda, che viene raccontata da Agata attraverso il doppio registro di un punto di vista soggettivo e oggettivo e seconda che si parli del presente o del passato della donna, si snoda parallela alla storia recente di Trieste, osservata attraverso il caleidoscopio delle etnie, dei luoghi o non luoghi, dei mutamenti del dopoguerra. I ricordi d’infanzia di Agata fanno da contrappunto all’incertezza di un presente che si mostra sempre nelle sembianze dello sdoppiamento: è sdoppiata la personalità di Zoran, è sdoppiato il suo lavoro, è divisa Agata tra l’amore per quest’uomo e il rifiuto della cultura e della società che rappresenta, è sdoppiata l’intera città di Trieste.
L’amore clandestino fra Agata e Zoran si consuma tra l’ottobre del 1979 e la primavera dell’80. In maggio muore Tito, sulla Jugoslavia cominciano ad addensarsi le nubi di quella che dieci anni dopo sarà la grande tragedia dei Balcani, e in questo clima di incertezza si incrina anche il rapporto tra i due amanti. Agata sospetta che Zoran l’abbia ingannata, forse addirittura drogata. La donna cerca un chiarimento, insegue l’uomo d’affari jugoslavo tentando di capirne i misteri, ma fra i due si erge di nuovo il confine, quel limite, quella barriera, che hanno segnato e segnano destini personali e collettivi.
Romanzo di antagonismi e di passioni, “Il confine di Tito” si  muove dunque lungo la duplice tematica dei sentimenti e della storia. Terreno non facile, che Camillucci affronta invece con disinvoltura e capacità narrativa, offrendo suggestioni e momenti non privi di accenti lirici sia che descriva la città di Trieste, sia che insegua i due amanti nei loro bollenti amplessi, frutto proibito di una passione al di là di ogni confine.






Rampigada dentro



Da “Il Piccolo”- Pagine della cultura del 30 aprile 2002, con il titolo “Tenacemente aggrappati ai ricordi”, la recensione è siglata  ancora una volta dal giornalista e scrittore Piero Spirito:
Aggrappati a un ricordo, a un’emozione, a un paesaggio. Restare come appesi, tenacemente legati a una condizione sospesa. Ricorre spesso, nei versi in vernacolo di Daria Camillucci, un’espressione che indica sospensione costante, l’idea di un’interruzione che può essere momentanea o eterna. Trieste stessa è una città “rampigada/ come una strica de sangue” e le onde del mare sono “sirene rampigade” mentre “un pergolo rampigado” si affaccia sul golfo e un sogno sorprende gli amanti “rampigai/ co’ l’anima sanguinada”.
Rampigada dentro” (Istiuto giuliano di storia, pagg. 106, 7,75 euro) come titola la raccolta di poesie, è dunque uno stato necessario, un modo d’essere di un’anima e di una città che nella  frammentazione, nel suo essere sospesa, trova la cifra caratteristica della sua identità. Come nota Gianfranco Scialino in prefazione, con i suoi versi “allentati, spezzati, con stupore e commozione sillabati e ricomposti infine nel fluire di una musicalità semplice e accorata.
Daria Camillucci compie un percorso lirico nei luoghi del presente e del passato, in una Trieste “rampigada dentro/ come una furia/ che strenzi/ ma no’ sfoga” sul Carso dai “colori strigai/ che se spaca/ in tra le foibe” al porto, “ tra le barche/ scavade/ de luna ruzine”, sul canale di Ponterosso, dove lo sguardo individua “ montagne de jeans/ scolorai/ come/ fazoleti nel ciel”.
E in questo peregrinare Daria Camillucci fruga nei suoi ricordi, apre squarci improvvisi su ciò che è stato e ciò che è, svelando una solitudine venata di disperazione.

Pi. Spi.


Sempre da “Il Piccolo” quest’altra recensione del 13 maggio 2002, relativa anche alla presentazione del libro fatta dal professor Scialino  alla libreria Minerva, è invece firmata da Mary B. Tolusso, sotto il titolo “Le strade della città dentro quelle dell’anima”:
Anima e corpo, gioia e malinconia, voluttà e rinuncia. E in mezzo Trieste, città amata e desiderata, “pre-testo” di un’unione che non sa distinguere ciò che l’anima ha fuso nel corpo. Sono i fili conduttori di “Rampigada dentro” di Daria Camillucci, raccolta poetica pubblicata dall’Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione. Presentato daGianfranco Scialino (che cura anche l’introduzione) alla libreria Minerva, (con la presenza di Claudio Grisancich) il cofanetto in dialetto triestino seduce già per la sua tramatura. “Una magica rete argentata a maglie larghe- l’ha definita Scialino- attraverso cui passano le parole”.
Parole legate al moto intuitivo che giungono a quella rara capacità di dire con poco tanto. E si dipanano riflessi che segnano una traccia, una meta dell’esistere dove si realizza l’intensità del sentimento. Malinconia, eros, amore, esaltazione, pluralità di cadenze esistenziali che si disseminano anche negli spazi: “Si compie così l’esplorazione dei luoghi consueti alla poesia con rivelazioni che vanno dall’altipiano carsico alle luci di Muggia”. Ed è qui, forse, il punto chiave di una sfida con la tradizione che riesce a dare ai paesaggi nuove dimensioni. La forza è quella dell’immagine, la capacità evocativa e sintetica, che sa proiettare nei luoghi una memoria coinvolgente, seguendo sempre le vie contradditorie che legano anche una cornice quotidiana (vie e quartieri) a una dimensione d’anima: “E nonostante i sentimenti contrapposti- ha aggiunto Scialino- Trieste infine è respirata come una città che rivitalizza, che dà vigore”.
Daria Camillucci, da molti anni attiva nella poesia, compare inoltre ne “La poesia in dialetto triestino”, antologia curata da Roberto Damiani e Claudio Grisancich, oltre che in “Lunario nuovo” (con prefazione di Stelio Mattioni) e in “Nuovi Argomenti!”. Ne ha parlato Grisancich, segnalando il percorso realizzato dall’autrice, ora capace di evocazioni che, in qualche misura, possono ricordare i furori poetici di Marina Cvetaeva. “Soprassalti che potrebbero anche disturbare, ma che invece riescono a offrire una fotografia immediata del sentimento, un’istantanea dell’emotività grazie a un disordine composito che sa chiudere i versi sinteticamente”. Ne ha dato dimostrazione pratica lo stesso Grisancich, che ha letto appassionatamente alcune liriche, lettura conclusa dall’attoreAndrea Busico.

Mary B. Tolusso

Recensione di Silvia Stern   Pagine della cultura di “Trieste Oggi” dell’11 maggio 2002, con il titolo: “Facciamo una rampigada dentro”:
“ Delicata, semplice, sapiente e coraggiosa”. Con questi quattro aggettivi il critico Gianfranco Scialino ha voluto qualificare l’ultimo libro della scrittrice triestina Daria Camillucci. Si tratta di una raccolta di poesie in triestino dal titolo “Rampigada dentro” edita dall’Istituto Giuliano di cultura,  storia e documentazione. Il lavoro, frutto di vita vissuta dell’autrice tra il 1981 e il 1985 evoca in 47 poesie i luoghi più suggestivi della nostra città con tutto ciò che la vista di quei luoghi crea nell’animo.
La difficoltà in cui si incorre oggi per essere definiti artista in campo letterario è quello di riuscire a dire cose mai dette fino ad oggi. E nel caso della poesia dedicata  a Trieste non è facile mettersi a confronto con un Saba o un Biagio Marin. Ma la Camillucci ce l’ha fatta, dimostrando tenacia e coraggio, ed a confermarlo sono state ieri, nel corso della conferenza di presentazione, le parole di Claudio Grisancich.
Parlando di Trieste l’autrice parla di sé e viceversa. Peregrina da Sistiana a Muggia passando per la Pescheria, la piazza Ponterosso, il Borgo Teresiano, la via Giulia, la Val Rosandra e il malinconico Miramare.
“Attraversando fiduciosa- ha spiegato Scialino- le foschie delle delusioni, scrostando la ruggine del dolore, eludendo la solitudine, vincendo i momenti di angoscia e di breve inerzia. Daria Camillucci consegna al lettore la sua vicenda di affetti che trascolora in un suggerimento cordiale e generoso, volendo insegnare la conquista delle interiore pacificazione: confondersi con le verdi-azzurre vastità marine, abbandonarsi al vento, ricaricarsi di gioventù in quell’angolo di mondo unico e amato che si chiama Trieste”.
La Camillucci quindi riscopre sé stessa attraverso “una magica rete argentata a maglie larghe attraverso le quali- ha continuato Scialino- passano le emozioni e i nodi sono le parole”. Grisancich ha evidenziato il grande salto di qualità compiuto dalla Camillucci confrontando gli scritti degli albori con “Rampigada dentro” ed ha apprezzato molto la schiettezza dello stile che come è proprio della poesia “infila la sua lama nella carne” .
Mai più sarò/cusìì striga de amor/e/ fogo lusigante/ nei tui oci/ Mai più sarò/cussì vertgine e putana/ Mai più sarò/ quela/  de quela note…”. Già da questi versi, tratti da “Quela note”, si evince che l’autrice non teme di svelarsi, di palesare sensazioni e sentimenti che a distanza di tempo ancora le risvegliano i lati più nascosti del suo animo.
La parola- ha precisato Scialino -ridesta il bene e il male, ricruenta ferite e le ricopre di balsamo, modula in cento cadenze il lungo inappagato vagheggiamento rivolto alla vita”.
Un “zigo de vento”, un lusigar tremante- ha aggiunto Scialino-possono essere il richiamo da seguire per giungere alla rivelazione di fremiti nuovi o per ritrovare il passato e farlo ascendere ancora alla luce, fresco, salvandolo dalle insidiose ombre dei fondali dall’oblio”.
“Mi son una naranza/ de spighi/ grampai/ su un abain” scrive l’autrice, ma contemporaneamente, altri versi esprimono un diverso impulso nei confronti della vita (“ Me piasessi esser/una puldra/e pensar de meno”), ora con struggimento, (Rimbalza/ tutoquel che de ti/me manca”), talvolta con disincanto (“Xe una remenada/sto amor!/amor che me sbianchiza/con promesse incrostade/ de fiaba”), altre con il fuoco (semo stai/ farfala e fior/ne la stanza..e quando/ se semo spacai/noi/ come le finestre/ ierimo oci/ in un mar/ de lampare”).




Ortighe... e un fior

Da “La rassegna dei libri”. Quotidiano  Il Piccolo di sabato 15 dicembre 1979.

“E’ con una simpatia istintiva e familiare che leggiamo le liriche raccolte in questo “Ortighe..e un fior”, di cui è autrice Daria Camillucci, qui al suo esordio. Ed è nel dialetto, in un “ciacola” esuberante di mimica, in un malizioso ammiccare, in una grazia ruvida e tenera, misto di pudore e civetteria, che i versi di “Ortighe…e un fior” affondano, vestiti di quella stessa genuinità e di quella calda schiettezza nella quale Trieste e la sua gente si identificano.
Ventotto poesie: quasi una fiaba che è profumo di Carso, folata di bora, colore di mare, voce di amata contrada; sorrisi e lacrime di una Trieste, costante ispiratrice, in una sfaccettata luce che da Duino a via del Monte, dal Giardino pubblico alla Risiera, da sant’Anna al Porto, dal Boschetto a san Cilino, si confonde nell’appassionato slancio dell’anima, nel timido risvegliarsi dei ricordi, nella turbata dolcezza di un amore.
Una poesia questa di daria Camillucci, che sa vibrare di sincerità, di freschezza, di “sapore”: e Trieste è qui, la si scorge carezzata dalla luna o spazzata dalla bora, nel vociare dei rioni, nell’incantata cornice di Miramare, nello spumeggiante salso del mare. Così, con il bruciante possesso di questa sua, nostra, città chiusa dentro il cuore, Daria Camillucci ci offre il suo “fiore” poetico, nel cui sbocciare c’è tutta la trepida speranza per il domani.
Sottolineando infine, come in apertura a “Ortighe… e un fior”, è Claudio H. Martelli a tracciare un preciso profilo critico della raccolta, mentre a Claudio Saccari si devono la fotografia e l’impaginazione di copertina.

Recensione siglata da G. P.





La critica de “La poesia nel Friuli Venezia Giulia, firmata da Grazia Palmisano, è del 5 settembre 1988, pubblicata nellaTerza pagina de “IL PICCOLO”, con il titolo ”Grandi, promettenti: la regione in versi” (a cura di Gianni Di Fusco - Forum/Quinta generazione, pagg . 204 Lire 20 mila):

Tre sezioni-“Poeti in friulano”,”Poeti in italiano”- “Letteratura giuliana”- arricchite da un accurato numero di testi, sono la materia che il pordenonese Gianni Di Fusco ha sviluppato in una pubblicazione che è illuminante indagine sul variegato e stimolante humus culturale di questa nostra terra di confine  e dei suoi tanti interpreti.
E’ uno studio monografico che inevitabilmente- e lo precisa lo stesso autore- si presenta vulnerabile, nel suo così ampio respiro, per la stessa necessità di una scelta. Ma, poeta egli stesso di cinque sillogi variamente premiate (tra cui il Premio Friuli Venezia Giulia 1981 e il Premio Duino 1983), Di Fusco ha una sensibilità e una capacità di analisi che bene lo guidano in questo saggio critico.
Un districarsi fra nomi per lo più conosciuti, apprezzati e amati; un ripercorrere itinerari e scelte poetiche; un rivisitare i commenti critici; un respirare le più disparate atmosfere spirituali: questo l’impatto e il rapporto emotivo che il lettore sentirà via via instaurarsi fra sé e le dense pagine del libro.
E, se nella prima sezione, dedicata ai poeti in friulano, Pier Paolo Pasolini occupa il posto di maggior rilievo, non possiamo non accennare qui ad alcuni tra gli altri qualificati poeti, sempre friulani, accuratamente citati da Di Fusco: Domenico Naldini, Franco De Gironcoli, Novella Cantarutti, Domeinico Zampier, Elio Bartolini, Nadia Paluzzo D’Aronco, Amedeo Giacomini, Eddy Bortolussi. Ricca di bei nomi anche la sezione” Poeti in italiano” (tra gli altri, Lo scomparso Dino Menichini,Geda Jacolutti, Luciano Morandini, Tito Maniacco), mentre “Letteratura giuliana” ci porta, più pregnante, il lirismo di una triestinità dalle sfaccettate suggestioni.
Partendo da lontano Di Fusco annota come tra i secoli passati sia il ‘700 a presentare in queste lontane propaggini di terra italiana un più articolato profilo di “verseggiatori”: Alessandro Gavardo e Gian Rinaldo carli ne sono gli illustri esempi. Ma eccoci al ‘900, a giorni a noi più vicini, alla poesia alta e dolente di Saba, di Giotti, di Marin, dei quali Di Fusco offre una precisa connotazione.
E poi gli altri, da Lina Galli e Carolus l. Cergoly, da Marcello fraulini, a Ketty Daneo e Silvio Cumpeta, Fabio Doplicher, per giungere alle presenze più giovani, ma già promettenti quali Fabio Pagan, Laura Parrinello, Adriano Sansa; e Depangher, Tamaro, Ferranti, Daria Camillucci, Roberto Oselladore, Alberto Princis: autori nei quali la tradizione giuliana si ripropone ancora e sempre attraverso temi e momenti emozionali di personali accenti.
Grazia Palmisano

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